Racconti
C'E' SEMPRE DA IMPARARE
Quando si è convinti che della vita si è compreso tutto, ci si rende conto di non avere appreso proprio niente.
Un giorno di tanto tempo fa, un signore che stava recandosi in macchina nei pressi di Ficuzza, alla vista di un vecchietto, curvo sul vecchio paniere, intento a raccogliere funghi, si fermò e gli si avvicinò:
«Buon giorno, nonnino!» disse. «Come va, come va la ricerca micologica?».
A quella domanda, il vecchietto fu posto in imbarazzo. «Buon giorno a vossignoria! Ma... che ha detto, che ha detto? Non capisco».
«Oh, niente!» rispose quel signore al vecchietto che conosceva solo campi e boschi...
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AMICI DI UN TEMPO
Fifone.
Molti avrebbero pensato a un ragazzo pieno di
paura, a uno che davanti al primo pericolo se la facesse sotto; mentre, invece,
il pericolo pareva lo andasse cercando. Le paure, le emozioni erano per Fifì (era quello il suo nome), vera ragione di
vita.
Fifone (quel nome era dovuto alla sua
smisurata mole) aveva sempre fame, mangiava che sembrava non vedesse cibo
da mesi. Gli occhietti, piccoli, parevano soffocare in quel faccione rosso e
lentigginoso.
Compagno di banco e suo migliore amico, era
Vannino, Giovanni per l’anagrafe. Usanza in alcuni paesini dell’entroterra
siculo è ancora quella di storpiare, ai piccoli, i nomi che poi li accompagnano
per tutta la vita. A Vannino sembrava non importasse proprio quella piccola
variante al suo vero nome.
«Paiono Gianni e Pinotto, maestra!» gridava
qualcuno dal fondo dell’aula, alludendo a due comici dell’epoca; il paragone
sembrava azzeccato, ma, ai due, anche di questo, pareva che non gliene importasse
proprio.
«Stupide battute, da stupidi compagni!» così
Vanni rincuorava il compagno Fifone.
Erano le migliori guide dei lupetti, il gruppo
scout dell’oratorio. Vannino, per il suo esile fisico, era il primo a esplorare
i posti inaccessibili a Fifone.
«Vedi niente?» gridava Fifone, indispettito
per il non facile passaggio.
«Dovete prendere in moglie due sorelle!»
gridava spesso donna Lena, mamma di Fifone, vedendoli sempre insieme. «Ma
badate» aggiungeva «che siano una magra e una cicciona!».
Venne il giorno che i due dovettero
separarsi; frequentavano l’ultimo anno delle elementari, e Vannino la quinta
ebbe a finirla altrove a causa di una promozione a dirigente di un ente
telefonico nazionale conferita al proprio papà, e arrivata dopo una lunghissima
attesa.
Si trasferirono da quel piccolo paese della
provincia di Palermo alla gran metropoli capitale d’Italia, Roma.
Gli anni, instancabili maratoneti del tempo,
fuggono correndo; e di quella famiglia non si ebbero più notizie. A Fifone il
militare fece l’effetto di una dieta; sembrava un altro, si era fatto di
diverso aspetto. Caso volle che divenisse bidello delle elementari in quella
scuola dove, con Vannino, avevano vissuto gli anni più belli.
“Vannino!” si ripeteva spesso Fifone, ogni
qualvolta qualche luogo gli ricordasse quel grande amico d’infanzia, ora
lontano. “Chissà cosa farà?” pensava.
Gli anni passano, e Fifone si trovò ad avere
tre figli.
-
Papà,
vieni anche tu, dai su, voglio che mi accompagni!
Mariolino, il più grande dei tre figli di
Fifone, era molto attaccato a papà, e, dovendo partire con la squadra sportiva
della scuola media scelta come rappresentante regionale a disputare le gare
nazionali a Roma, desiderava tanto che egli lo seguisse anche là. Finì che
Fifone accontentò Mariolino e partì anche lui.
Roma, a Fifone, che non era mai uscito dal
paesino di Belmonte Mezzagno tranne che per il militare e per qualche viaggio a
Palermo, sembrava un immenso formicaio, un andirivieni di persone e di macchine
in grovigli di vie.
<<Quanto è grande piazza San Pietro!
Quanto è bello il Colosseo! Oh, che meraviglia il Pantheon, papà! E la fontana
di Trevi!
Mariolino e Fifone sembrava che vivessero un
sogno, un sogno che volevano non finisse mai. La squadra di Mariolino si aggiudicò,
vincendo la finale con un’altra di Firenze, il titolo di campioni d’Italia.
Furono ricevuti al Quirinale e premiati dal presidente del Consiglio in
persona, il quale consegnò a ogni singolo giocatore la medaglia.
«Vannino!» gridò Fifone, pieno di gioia e
durante la cerimonia, a uno che stava accanto al presidente e che ancora
distribuiva medaglie.
«Non ti ricordi di me?» continuò ad alta voce
in mezzo a quella gente altolocata.
«Io sono: Fifone! Il tuo compagno di banco!
A questo punto, quel tizio gli si avvicinò e,
facendo finta di non conoscerlo, gli rispose: «Guardi che io non sono quel suo
Vannino, ma il senatore Renzi!
Tutti guardavano, Fifone, mortificato abbassò
gli occhi e volle subito far finire quello che per lui era stato un bel sogno;
gli affiorò in mente il paesello e le cose semplici d’allora; il Vannino Renzi
di un tempo, ora, era divenuto adulto.
«Papà, papà,» fece Mariolino abbracciandolo
«ti sarai sbagliato!».
Fifone guardò ancora
Vannino Renzi intento a parlare, indifferente, con altri, anch’essi forse
deputati; si abbassò ad abbracciare il figliolo e gli sussurrò all’orecchio: <<Mariolino,
quando sarai adulto, ricordati sempre d’essere stato bambino.
(rocco chinnici)
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C’E’
SEMPRE DA IMPARARE
Quando si è convinti che
della vita si è compreso tutto, ci si rende conto di non avere appreso proprio
niente.
Un
giorno di tanto tempo fa, un signore che stava recandosi in macchina nei pressi
di Ficuzza, alla vista di un vecchietto, curvo sul vecchio paniere, intento a
raccogliere funghi, si fermò e gli si avvicinò:
«Buon
giorno, nonnino!» disse. «Come va, come va la ricerca micologica?».
A quella domanda, il vecchietto fu posto in
imbarazzo. «Buon giorno a vossignoria! Ma... che ha detto, che ha detto? Non
capisco».
«Oh, niente!» rispose quel signore al
vecchietto che conosceva solo campi e boschi.
E
finì che, camminandogli accanto, mise in mostra il suo sapere:
«Sa»,
disse al buon vecchietto «a che altezza siamo sopra il livello del mare?».
«Non
so proprio!» rispose il poveretto intimidito.
«Sa quant’acqua pompano a Palermo i motori
del lago di Piana degli Albanesi?».
«Vossignoria
chiede certe cose!»
Quello continuava a tempestare di domande il
vecchietto, che, meravigliato e nello stesso tempo mortificato, inghiottiva,
una dopo l’altra, le tante risposte sconosciute. Finì che tra una domanda e una
risposta, ognuno riempì il proprio contenitore di funghi.
«Sa», continuò ancora il sapientone con
cattedratica oratoria, «Io ho studiato a..., io sono stato a..., io ho visitato
il...; e la distanza, la distanza che c’è fra Marte e Nettuno, la sa, la sa? E
la velocità della luce?».
Il
vecchietto ascoltava stupito.
Ritornati
sulla strada dove si trovava la lussuosa macchina, si salutarono:
«Arrivederci! Io sono il professore Raveri,
docente universitario della cattedra di Ingegneria nucleare di Palermo».
Il vecchietto, sconfortato per non aver
saputo dare una risposta, e imbarazzato davanti a tutti quei titoli, divenne
più piccolo di quanto non lo fosse già, e sussurrò leggermente:
«Io
sono solo Carminu di Belmonte Mezzagno, a servirla!».
E si congedarono. Il vecchietto, arrivato a
casa, raccontò tutto quanto alla moglie Concettina, seduta a filar la lana,
accanto al braciere acceso:
«Concettina, dovevi sentire! Che persona
istruita! Non c’era cosa che non sapeva: il mare, le stelle; mi disse pure
dell’acqua del lago di Piana degli Albanesi!…».
«E... dimmi una cosa>>, fece lei,
<< ma… due funghi, glieli hai dato due funghi?».
«Quando mai! Fui così preso da tutto quel
sapere e dalle novità che mi raccontava, che ho dimenticato; ma, se non sbaglio,
anch’egli riempì il contenitore».
«E
di che funghi, di che funghi?».
«A dire il vero… sentivo che parlava,
parlava, ma alla qualità non feci caso; domani gli telefono, sai, mi ha dato
anche l’indirizzo».
L’indomani
il primo pensiero fu quello di telefonare:
«Pronto! Pronto? Parlo con la famiglia
Raveri? Cercavo il dottore… non c’è?... Ah! È morto?... E come?... Per i
funghi?».
Posò
il telefono sconfortato e cascò sulla sedia, borbottando:
«Minchione!
Concettina, è morto!».
«Morto…
chi, il dottore? E come?».
«Per
i funghi!».
«Per i funghi?» fece Concettina,
meravigliata. «E perchè non glieli hai controllati se erano buoni, o no?».
«Come facevo, Concettina? Di quante cose
sapeva, andavo a pensare che non conosceva proprio i funghi?».
“Tintu
chidd’omu ca mori pi li funci,
pirchì
a stu munnu ’un c’e cristu ca lu chianci”.
(rocco chinnici)
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ESEMPI
DI GRANDE UMILTA’
Eravamo
in macchina intenti a raccontarci del più e del meno, l’argomento in questione
era la brutta annata micologica che, a causa della siccità, non riuscì a fare
nemmeno una fioritura, ad un tratto sentimmo un forte tamponamento da farci,
pur essendo dentro la portentosa jeep del mio fraterno Amico, sussultare mezzo
impauriti; una macchina di piccola cilindrata, a causa della distrazione del
suo guidatore, venne a sbattere demolendo del tutto il suo frontale. Scendemmo
preoccupati per vedere quanto successo e ci accorgemmo dello sfortunato
guidatore che, con le mani sulla fronte, cadeva in preda allo sconforto per
quel danno che sembrava ancora più grave di quanto pensammo; cercammo di
tirarlo su ricordandogli che esistono le assicurazioni perché risarciscono i
danni.
–Il
torto è mio!- continuava a ripetersi fra una manata e l’altra sulla fronte. -Come
faccio a riparare il mio danno con le assicurazioni che riconoscono appena il
danno alla macchina incidentata? Non ci voleva, non ci voleva continuava a
ripetersi esasperato.
Finì
che, fra una maledizione e l’altra, fece l’assicurazione mentre noi cercavamo
di rincuorarlo.
–Sono
uscito di casa di buon mattino per andare a guadagnare una manciata di euri,
pagano poco vista la crisi, e ora mi trovo in questa maledetta situazione.
Ci
raccontò della sua famiglia numerosa, dei suoi piccoli che spesso, a causa
della mancanza di lavoro, andavano a scuola senza merendine… insomma un mattino
all’insegna di una realtà come tante altre che continua a dilagare nel
meridione dove il lavoro lascia, ancor più delle altre regioni del Nord, a
desiderare. Salutammo quel malcapitato e ci avviammo cambiando programma
recandoci dall’elettrauto per la sostituzione dello stop che s’era spaccato in
quell’urto. Il mio Amico Natale (era questo il suo nome, sembrava gli cadesse a
pennello poiché il Natale con la sua Natività rappresenta il massimo
dell’umiltà) chiese che gli fosse sostituito il pezzo raccomandando che non
fosse di marca, tanto che gli costò meno della metà: poi ci recammo dal
carrozziere per il paraurti mezzo ammaccato e, anche li, essendo un vecchio
conoscente, gli ha chiesto che gli desse una sistematina alla meglio… non riuscivo
a capire ancora il perché dell’Amico mio per quelle scelte un po’ scellerate
poiché aveva già avuto fatta l’assicurazione.
I
giorni passavano col solito quotidiano: un po’ a pesca, un po’ alla ricerca di
qualche fungo giacché il tempo fu benevolo facendo ricche giornate di pioggia;
dell’incidente e di quel malcapitato finì che non se ne parlò più, anzi
dimenticai del tutto quel funesto giorno.
L’inverno
era da poco passato e il sole cominciava a mostrare i suoi primi timidi raggi
dorati, e per quel giorno avevamo confermato, la sera prima, di andare a seppie,
approfittando di quel mare che in quei giorni si mostrava una tavola;
quant’ecco il clacson della Jeep del mio Amico, puntuale come gli orologi
svizzeri; esco con canna e bauletto per andare a mare, quando egli mi dice di
posare tutto perché dovevamo andare in un altro posto; ci avviammo senza che mi
dicesse quale fosse la meta, cercavo di capire, durante la strada, la
destinazione quale fosse.
Arrivammo
a Porto Rosa (una grandissima struttura residenziale in mezzo al mare come
fosse un isolotto da fare invidia a tutta Italia e forse anche oltre); ci
fermammo in una di quelle villette, lui scese e suonò il campanello, mentre io
continuavo a non capire… quand’ecco venire fuori da quella villetta in via di ristrutturazione,
un tizio tutto sporco di calce persino sul viso, tanto che stentai a capire chi
fosse, quando si avvicinò lo riconobbi, era quel tizio sfortunato
dell’incidente! Scesi per salutarlo mentre il mio Amico gli dava una cospicua
somma di denaro, era quel più che gli era rimasto dei soldi dell’assicurazione
che aveva riscosso il giorno prima, e da li capii il perché di quel risparmiare
nello stop rotto e nel paraurti e quant’altro.
Sicuramente
si erano messi d’accordo la sera prima dove vedersi.
-Tieni,
prendi- insistette –questi sono in più, e a te, che tieni tre figlioletti, faranno
più comodo; mentre dagli occhi di quel pover’uomo commosso scendeva una grossa
lacrima ricca di gioia e di grande riconoscenza.
Non
so se nel mondo si verificano spesso questi grandi gesta, la cosa certa è che,
se tutti indossassimo il vestito dell’umiltà, la Vita sarebbe più bella, più
sana… ma soprattutto composta di più uomini onesti.
(rocco
chinnici)
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La giornata uggiosa e quel timido sole settembrino, sembravano un vecchio dipinto del Van Gogh. Agghindato a festa percorreva con papà ‘Ntoni la vecchia via di quel paesino di Belmonte che conduce alla piazza del paese dove ancora sostano le corriere che portano a Palermo. Quello che appariva un sogno, per il piccolo Januzzu, da lì a poco, sembrava stesse avverandosi. Quel nome Januzzu, diminutivo di Luciano, ebbe a ereditarlo dal nonno paterno, tipica consuetudine di tramandarlo ai primi nati, lasciti ancora usuali di quella bella isola a tre gambe, la Sicilia. Januzzu era molto innamorato della storia di quella fanciulla dal nome Sicania, tanto che, a risentirla narrata da nonna Silvia, attorno al braciere in quelle serate freddolose, riusciva sempre a mandare a spasso la sua tenera fantasia di bimbo innamorato della propria Terra. Questa figura di giovine donna che, invaghitasi di un pastorello, ebbe a supplicare maga Silla, perché le aggiungesse una gamba in più per arrivare velocemente dal suo piccolo spasimante pastorello dal flauto incantato; tanto che Silla, commossa da si tenero amore, non poté che acconsentire. Spesso i bimbi, che stavano a riascoltare la favola, chiedevano alla nonna se anche loro avrebbero potuto chiedere a maga Silla una gamba in più e se l’avesse loro concessa. - Sono solo favole! - ripeteva nonna Silvia, favole che si tramandano nel tempo… - Anche voi, un giorno le racconterete ad altri piccoli.
Il suono della vecchia corriera, riportò il piccolo alla quotidiana realtà e, sorridendo con tanta curiosità chiese guardando suo padre: - Davvero ch’è grande la città, papà? E li cosa fanno i bambini? Anche li, le nonne raccontano favole come quella della fanciulla a tre gambe?
Non smetteva di fare domande, e spesso papà ‘Ntoni non riusciva ad esaudire la risposta poiché era come se venisse trascinato in strani labirinti dalle difficili uscite, Nonna Silvia diceva al piccolo che la risposta ad ogni perché corrispondeva a un gradino in più nella scala dei saperi, ed egli sembrava volesse salire tanti gradini da finire sulla luna.
-Eccola la corriera! Ch’è bella!- gridò arrivati in piazza. A dire il vero, di bello quella vecchia corriera non aveva nulla, anzi sembrava, stinta com’era e impolverata, che dovesse perdere qualche pezzo strada facendo: un faro, un parafango ammaccato, o la marmitta che, oltre al gran fumo nero, emetteva grossi cigolii e rumori strani; vecchie corriere di lunghi viaggi che, prima di mandarle a riposo, finivano di essere utilizzate per congiungere i piccoli paesi con le vicine città, e Belmonte era ad appena 15 km dalla Capitale; salendo quei tortuosi tornanti sembrava chiedesse aiuto ai passeggeri perché la spingessero alleviandola da quella gran fatica, insomma, una corriera da potere ancora utilizzare. Una brutta storia meridionale che non passerà mai di moda, poiché a far questo adesso sono i treni che, dopo aver lavorato al Nord, ce li appioppano in Sicilia, su binari a bassa velocità… dove l’armamentario è più che scadente, volutamente per queste esigenze, ci sarebbe tanto da raccontare su questo.
Appena arrivati in città, il piccolo Januzzu, rimase impietrito nel guardare quei palazzoni appiccicati gli uni con gli altri come sardine messe in salamoia, del resto era la prima volta che si materializzasse quel tanto atteso sogno; lo incuriosì un filobus che, con le sue alte aste, sembravano solleticare quel cielo colmo di nubi.
-Papà, guarda! I carri vestiti a festa! Che bei cavalli!
Palermo era piena di carrozze, normali mezzi di trasporto cittadini; oramai attrattiva per il turista che ama girare per le vie ricche di antichi monumenti.
-Andiamo in carrozza, papà? Su, voglio sentire quanto è bello!
Saliti, la carrozza cominciò a inoltrarsi nel centro storico, in una di quelle vecchie viuzze che portano a ballarò, un antico mercato che risale ai tempi di quando gli arabi abitarono la Città; un fragoroso rumore di zoccoli, richiamò l’attenzione dei due, non tanto il cocchiere poiché abituato a quei rumori; era un grosso cavallo da traino che, stanco, non riusciva a fare a tirare quel pesante carro dal doppio carico e, come se non bastasse, la povera bestiola veniva tempestata da poderose frustate dal proprietario, un omone che sembrava non volere sentire ragioni di quell’animale oramai privo di forze.
Il sudore e la bava che colava dalla bocca al povero animale, segnavano le sofferenze cui era costretto a trainare quell’immane carico.
‘Ntoni, nel guardare quella figura, che di umano aveva ben poco, accanita contro quella povera bestia che frustava e gridando improperi, saltò giù dalla carrozza rischiando di cadere per terra e corse da quell’omone perché smettesse quella ingiusta furia verso quell’indifeso e sfinito animale. L’omone, nel vedere quel gesto si scagliò a frustare anche ‘Ntoni, colpendolo a destra e a manca, mentre il piccolo Januzzu, impaurito, cominciò a piangere gridando aiuto al cocchiere quasi indifferente a quella macabra scena.
-Papà, papà!- gridava il piccolo con quanto fiato aveva in gola.
-Lascialo! Lascialo!- supplicava l’omone a non inveire contro suo padre ch’era persino finito per terra.
Nessuno ebbe il coraggio di avvicinarsi a quella furiosa tempesta, mentre il piccolo, inerme, fissava quella scena che ebbe a segnarlo per tutta la vita, poiché scoprì, in quel dramma, chi dei due, omone e cavallo, fosse l’animale vero. Arrivarono dei vigili e dei volenterosi che sedarono la lite; l’omone venne condotto al Commissariato di Pubblica Sicurezza, dove venne interrogato e tenuto in fermo.
Januzzu corse ad abbracciare suo padre buttandogli le braccia al collo piangendo per quella brutta scena vissuta. Infondo alla strada comparvero i vigili con un signore che conduceva due cavalli, sicuramente un incaricato a sostituire quella povera bestia e sgombrare quel traffico che s’era venuto a creare. Januzzo guardava suo padre e quella povera bestiola ancora li per terra e che continuava a girare la testa verso il piccolo e suo padre, come a volerli ringraziare per quel caritatevole gesto.
‘Ntoni, ripresosi, chiese a uno dei vigili dove si trovasse un negozio li vicino per comprare la cavezza e, ringraziandolo, si allontanò mano con mano col piccolo, che ancora singhiozzava, commentando l’accaduto.
Quel giorno che avrebbe dovuto essere tanto festoso, divenne alquanto triste, e quella Città che tanto gli era apparsa in sogno facendolo fantasticare, ora gli si poneva davanti come luogo da dimenticare, persino quei rumori dei tram infastidivano il piccolo; avrebbe voluto trovarsi in paese, ai suoi campi, in quel silenzio che aiuta a pensare, amare la natura e tutti i suoi componenti.
-Su, cosa vuoi che sia successo! Adesso compriamo un bel gelato!- fece ‘Ntoni per distogliere il piccolo da quei tristi pensieri. Aveva messo da parte qualche soldo, oltre che per la cavezza, per comprare al piccolo una qualche leccornia in quella Città che tanto desiderava conoscere.
-Torniamo a casa, papà!- disse Januzzu ancora sconvolto.
-Voglio andare dalla mamma!- continuò supplicando suo padre perché gli desse ascolto.
Comprarono la cavezza, della stoffa che gli aveva commissionato Lucia, la moglie, e fecero ritorno verso la corriera che era già li e col motore accesso.
Via via che la vecchia corriera saliva in quei tortuosi tornanti, Januzzu osservava la Città scomparire a valle, mentre nei suoi piccoli occhi si leggeva ancora la scena dell’accaduto.
-Non diremo niente a mamma- disse ‘Ntoni al piccolo intento a cercare in quella città già lontana, la viuzza dove si svolse l’orribile scena.
-Chissà dove sarà quel cavallo! Pensi che glielo daranno di nuovo a quell’uomo cattivo, papà?
Ripeteva spesso quell’accaduto.
-Perché ha bastonato quel povero animale? Perché se l’è presa pure con te?
‘Ntoni cercò, come sempre, di dare una giusta risposta spiegandone per ognuna la propria ragione. Il piccolo guardava suo padre sempre più sconvolto nell’apprendere che possa esistere gente in grado di bastonare gli animali e il proprio simile; era vissuto in un paesino con poche case, alcune di esse vecchie e diroccate, abbandonate da chi andò a cercare fortuna altrove, come i fratelli di ‘Ntoni che, emigrando, lasciarono sulle sue spalle il peso delle responsabilità e della fatica che gli permettevano di vivere dignitosamente.
-Allora… non diremo niente alla mamma, di quanto successo in Città!
-Promesso, papà- rispose baciando l’indice e il medio unito e rivolto verso l’alto, mentre la corriera imboccava l’ultima curva per fare l’ingresso in paese.
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